Cherasco – Luigi Spazzapan – Palazzo Salmatoris
LUIGI SPAZZAPAN
Si inaugura, negli splendidi saloni di Palazzo Salmatoris di Cherasco, già noto ormai da anni ai cultori ed agli appassionati d’arte, una nuova importante rassegna dal titolo: “Luigi Spazzapan dalla quotidianità al fantastico”. La mostra si prefigura di dare il ritratto artistico della maturità pittorica di un autore che, di origine slovena (Gradisca d’Isonzo 1889 -Torino1958), si ritrova catapultato nel 1928 nella Città della Mole, considerata dallo stesso Spazzapan una realtà autoreferenziale ed a lui poco consona. La sua formazione avviene comunque all’interno del Movimento Futurista Giuliano e, in seguito, nell’ambito del nascente razionalismo che lo conduce appunto, nel 1928, ad accettare la collaborazione per il Padiglione della Chimica all’Esposizione di Architettura torinese in occasione del decennale della Vittoria. Spazzapan proviene da un ambiente mitteleuropeo, da un crocevia di culture (latina, slava e austriaca) ma, nonostante questa grande prerogativa, alla fine il lavoro non gli viene assegnato a causa dell’attività anarchica del fratello. L’artista decide comunque di restare a Torino, ai margini del cenacolo casoratiano, e qui viene avvicinato da critici come Lionello Venturi ed Edoardo Persico, oltre che dagli amici del Gruppo dei Sei, grazie soprattutto alle sue splendide chine e lavis all’inchiostro o al nero di seppia di cui la mostra presenta diverse varianti. Sono anni in cui collabora anche con la “Gazzetta del Popolo” e comincia a ritrarre la città che lo “ospita”e i suoi dintorni, con tratti rapidi e nervosi come bene dimostra in rassegna il quadro “Paesaggio torinese”. Nel 1945, tornato nello studio del Capoluogo piemontese dopo essersi rifugiato a Pinerolo, trova i pochi resti di un incendio devastante, che risale al 1943, e che ha ridotto in cenere migliaia di suoi lavori. Comincia allora una nuova fase, quella su cui si incentra l’evento cheraschese, caratterizzata da una rinnovata volontà di agire sul territorio e di adoperarsi, oltre che in pittura, anche nella tecnica dell’arazzo come “Pittura murale”. Negli ultimi anni, dopo quasi un trentennio di ricerca, e preso da un impeto di ritrosia nei confronti dell’ambiente torinese, sviluppa la sua poetica al limite fra astrazione e figurazione, inaugurando le figure misticheggianti dei Santoni e degli Eremiti, che richiamano alla mente quelle di El Greco, evidente in “Santoni con colombe”, e intensificando la ricerca informale, qui rappresentata dall’olio “Fiori e specchio”, tanto che Michel Tapié accosterà il suo lavoro a nomi quali Mark Tobey e Clyfford Still. Dal 1950, invitato alla Biennale di Venezia (come già nel 1936) , alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di San Paolo conclude una parabola artistica svoltasi sotto la cappa costante dello sradicamento, sotto il segno di una crescente insofferenza verso un senso di sofferta appartenenza ad un ambiente che si rivela una mera forma di circolo chiuso. Quella sofferenza, ma anche quella grande capacità di trarne i motivi più lirici, che tutta la mostra disvela in omaggio anche ai cinquant’anni dalla scomparsa.
SPAZZAPAN: IL ‘BUCANIERE’
Era il 1915: Torino e l’Italia si apprestavano a vivere una delle stagioni più drammatiche della loro storia e i venti di guerra accendevano gli animi di poeti, scrittori, intellettuali, artisti, fra rabbia e dolore o giovanili e patriottici ardori. Anche la pittura interpretò la storia e lo fece soprattutto con la passione del colore, il ritmo forsennato del gesto, la dinamicità della cifra compositiva e il Futurismo divenne linguaggio e idea per una nuova stagione creativa dal senso e dall’impeto tutto italiano, ma già europea nell’interpretazione di un rinnovamento tanto necessario quanto auspicato negli ambienti non accademici del tempo. In questo quadro si comprende meglio anche la pittura di Luigi Spazzapan, così anticonformista nel segno improvviso e nervoso, quasi un alfabeto cifrato, seppur ancorata a un senso profondo dell’esistenza e del mondo, di un naturalismo moderno che intendeva dialogare con le sperimentazioni e le rivoluzioni artistiche europee. interessante annotare un pensiero di Carlo Carrà proprio di quegli anni, secondo cui il pittore avrebbe dovuto partire “dal concetto dinamico assunto quale elemento fondamentale”, non limitandosi a impostare il dipinto con un senso di movimento solamente esteriore, ma creando al suo interno, attraverso l’emozione primaria del colore, un nuovo “centro di gravità speciale della costruzione del quadro”. Sarebbe superata, in questo modo, la legge di gravità fisica dei corpi per elevare il soggetto a idea, a pura intuizione trascinatrice, lasciando intravedere, e non svelando del tutto, ciò che era plasmato nell’opera con pennellate e pigmenti. Il colore e il segno intesi quindi come primaria e ultima emozione, sufficienti a se stessi nel difficile compito di rappresentare l’anima del mondo e del poeta. Da questa intuizione nasce e si sviluppa anche la poetica di Spazzapan, che si evolve attraverso il dibattito artistico italiano del secondo dopoguerra, nutrito del dualismo astrattismo-realismo. In questo contesto, risulta emblematica la posizione di primo piano assunta dal ‘picassismo’, contrapposto ai seguaci di Felice Casorati, nell’ambito del Premio Torino del 1947, organizzato da Spazzapan, Mattia Moreni, Ettore Sottsass jr. e Umberto Mastroianni, che sancisce di fatto il prevalente legame del capoluogo piemontese con gli esiti più alti della poetica d’oltralpe del primo Novecento. Autonomo e distaccato tanto dal classicismo casoratiano quanto dalla poetica post-impressionista del Gruppo dei Sei, Spazzapan diventa per gli amici del tempo “il bucaniere”, spesso affiancato dal “pirata” Umberto Mastroianni, con cui espone, in un evento storico e polemico, alla Galleria La Bussola, nel 1948. Il legame nascente con le avanguardie europee di quegli anni percorre la produzione di Spazzapan, sintesi coraggiosa e intensa, personale e unica di un astrattismo informale nato e sviluppato dagli ultimi fuochi dell’espressionismo mitteleuropeo in cui si era formato. La sua poetica diventa così naturale porta di accesso al futuro MAC, Movimento Arte Concreta, la cui sezione torinese vivrà delle sperimentazioni di Albino Galvano, Adriano Parisot, Carol Rama, Annibale Biglione, Filippo Scroppo, Mario Davico e Paola Levi Montalcini, ancora una volta impavida sfida alle convenzioni, arrembaggio bellicoso e vincente tra i flutti burrascosi della modernità italiana, di una stagione artistica che non dimenticherà il canto libero e cromatico del suo “bucaniere”.
Guido Folco
LUIGI SPAZZAPAN
IL FRESCO E VIBRANTE CODICE EMOTIVO DI UN MAESTRO
Il destino di Luigi Spazzapan è perlomeno curioso: una vita difficile la sua, al punto che, se fosse un romanzo sarebbe stato tanto apprezzato dai lettori di gusto raffinato.
Il maestro era nato a Gradisca d’Isonzo nel 1889; allievo della Realschule di Gorizia e destinato all’Accademia di Belle Arti di Vienna, dopo l’attentato di Sarajevo e una dura esperienza nell’esercito austroungarico, si trova, sulla soglia dei trent’anni, come il tenente Trotta di Joseph Roth, a chiudersi amaramente in una propria “Turris”che lo preserva dalle brutture del mondo che lo circonda. Terminato il conflitto mondiale, Spazzapan trova impiego come insegnante di matematica alle scuole medie di Idria, ma nel 1923 lascia l’insegnamento per dedicarsi solo all’arte. Si avvicina così al gruppo futurista Giuliano fondato da Giorgio Carmelich, Sofronio Pocarini e Mirko Vucetic e partecipa, con sculture violentemente colorate, alla prima mostra futurista di Padova.
L’ambiente intellettuale goriziano dimostra una splendente vitalità e non è ancora soffocato dal clima nazionalistico opprimente; ha sede fissa al Caffè Venezia ed è particolarmente variegato anche se, quella delle avanguardie giuliane, resterà solo una bella parentesi di vita. Una storia che non rifluirà, peraltro, nell’accademia e neppure nella militanza fascista. Spazzapan, in tale contesto, partecipa con sue opere a mostre d’avanguardia, a Praga ed a Parigi, nel 1924 e nel 1925. Ma è chiaro che il clima è cambiato. Quello che era un orizzonte europeo teso alla ricerca tramite il futurismo, l’espressionismo ed il cubismo, viene isterilito da una cultura che ritorna al passato, alla retorica dei cipressi e dei covoni di grano alla Italico Brass.
Come potevano degli artisti cosmopoliti abituati a un rapporto diretto con centri di cultura d’avanguardia come Vienna o Praga o Parigi convivere con l’imposizione della cultura di regime? L’emigrazione dei nomi più interessanti del panorama culturale fu la diretta conseguenza. La città mosaico si scompose in pochi anni. Ha inizio, di conseguenza, la diaspora dell’intellighenzia giuliana e il caffè Venezia, un po’ alla volta, perde la clientela più prestigiosa.
Così anche Spazzapan, nel 1928, si trasferisce a Torino, chiamato dall’amico architetto Pogatschnig, per realizzare una decorazione murale in occasione dell’imminente Esposizione Internazionale, ma dove, a causa delle sue dichiarate tendenze anarchiche, gli viene ritirato il passaporto e finisce per trovarsi bloccato. A Torino Spazzapan trova comunque l’occasione obbligata per iniziare una nuova vita, inserendosi rapidamente nei circoli culturali più originali del momento e, in particolare, frequentando il gruppo de “I Sei” (composto da Gigi Chessa, Enrico Paulucci, Carlo Levi, Jessie Boswell, Nicola Galante e Francesco Menzio), allora l’unica alternativa cittadina riconosciuta alla scuola di Felice Casorati. Ma Spazzapan continua a volere l’attualità assoluta, l’invenzione a getto continuo e a cercare un’arte libera. E, in quegli anni, non è il solo a predicarla. Infatti a Torino si forma anche, attorno a Fillia, un gruppo di neo – futuristi. La loro informazione circa i movimenti artistici avanzati in Europa è molto più aggiornata di quella dei Sei. Conoscono le correnti costruttiviste, dall’avanguardia sovietica al neoplasticismo olandese, alla Bauhaus. Accusano Casorati, Venturi ed “I Sei” di culturalismo e moderatismo. Paradossalmente Spazzapan che per formazione, idee, stili ed opere sembra molto vicino ai neo-futuristi, e quindi portato ad un incontro con loro, resta, pur con molte riluttanze ed impennate, accostato e vicino ai Sei.
Nonostante l’interesse rivolto alle novità organizzate in movimenti, Spazzapan continua ad essere costantemente contrario a totali arruolamenti intellettuali negli stessi perché risolutamente individualista: osservato in retrospettiva, il percorso dell’artista a Torino costituisce, in effetti, in primo luogo una dichiarazione d’indipendenza da mode e teorie, a partire dalla fondamentale temperie culturale che vedeva contrapposte figura ed astrazione. La tensione tra astratto e figurativo caratterizza l’intera opera di Spazzapan e, tuttavia, essa è per molti versi soltanto apparente, in quanto il tratto nervoso e la fantasia frenetica di questo artista anarchico non riescono a restare buoni e sistemati in un classificatore preciso.
Difficile, anzi quasi impossibile, definire l’opera di Luigi Spazzapan. Sia per le scelte tematiche, che per l’immagine costruttiva adottata, basata sul disegno attraverso il colore (cioè con una composizione che non è sorretta dal disegno sottostante, ma si sviluppa direttamente per pennellate e tratti cromatici, i quali definiscono così il soggetto). In questo modo, all’immediatezza e freschezza espressiva, si accompagna anche una particolare evanescenza di dettagli rappresentativi – quelli ai quali la pittura italiana dello stesso periodo era rigidamente abituata dall’insegnamento casoratiano o, ancora, dal pesante determinismo visivo di marca sironiana – conferendo all’immagine una caratteristica indefinitezza che risulta vicina, almeno in parte, con l’espressionismo conosciuto dal maestro sin dalla sua formazione austroungarica.
Così, per tentare un rinnovamento radicale dell’ambiente artistico torinese dopo la guerra, si lega a Mastroianni e Moreni i quali riconoscono in lui il “leader” di una nuova avanguardia, non più legata a teorizzazioni o programmi, ma impegnata a recuperare all’arte il privilegio dell’invenzione.
Spazzapan irride alle regole e ricusa i programmi: la libertà ritrovata deve essere anche libertà incondizionata, prorompente, dell’arte. Che la mano di Spazzapan abbia, in ogni caso, un’affinata consuetudine con la resa mimetica è comunque incontestabile e, se non altro, conseguenza della sua attività, prima di grafico a Gorizia, poi di illustratore (in particolare per “la Gazzetta del Popolo” e “Il Selvaggio”) con cui l’artista si mantiene a Torino per diverso tempo, almeno fino a quando, verso la metà degli anni Trenta, inizia finalmente a essere riconosciuto a livello nazionale, partecipando alla Quadriennale di Roma nel 1935 e alla Biennale di Venezia l’anno successivo.
Seguono le prime, e poi sempre più frequenti, mostre personali, ma intanto la guerra, nel 1942, distrugge in una notte di bombardamenti su Torino l’intera produzione dell’artista raccolta nel suo studio. L’incendio, pur segnando enormemente il maestro, lo rende ancora più determinato nel suo fare artistico come dimostra la progressiva svolta verso una pittura di sempre più intensa cromaticità, che studiosi hanno definito “antigraziosa” secondo un’ascendenza futurista che, come già detto, Spazzapan aveva dichiaratamente fatta propria in gioventù e che, per una parte almeno degli anni Cinquanta, sembra riproporsi attraverso un ricorso frequente a spigolose geometrizzazioni.
L’ultima fase della produzione di Spazzapan è patrimonio della più riconosciuta arte contemporanea, caratterizzata da un impeto visivo, da una grande carica espressiva e dalla riconoscibilità rappresentativa dei soggetti (santi di infuocata ieraticità cromatica, cani e gatti dal tratto selvatico, o ancora vorticosi nudi femminili) che, non a caso, hanno indotto il celebre critico Michel Tapié – impressionato dalla sala personale di Spazzapan alla Biennale di Venezia del 1954 – a sostenere un parallelo con le opere di Wilhelm de Kooning dello stesso periodo, riconoscendo a Spazzapan una funzione rinnovatrice di livello internazionale.
Se quanto sin qui ricostruito è il dato critico-biografico ordinariamente riconosciuto, diventa necessario sottolineare alcune brevi annotazioni tese a considerare qualche particolare elemento costitutivo della sua arte, ricollegando il tutto alla riflessione iniziale di Persico sullo spaesamento caratteristico dell’artista.
Un appunto di Spazzapan pare importante al proposito: “io sogno male – scriveva nel suo diario diversi anni dopo l’arrivo a Torino – non che sia un incubo ma una specie di affanno che mi prende quando sono in una via di Roma e cammino, e poi, di botto, mi trovo in una piazza di Vienna e mi perdo e chiedo la strada e mi pare di essere a Milano o a Parigi, e l’affanno mi sveglia. Voglio fare una città che sia quest’affanno”.
E proprio un simile affanno può essere la chiave interpretativa migliore dell’opera di Spazzapan, in grado di spiegare tanto la scostante nervosità del tratto quanto i nuclei profondi delle tematiche predilette, vedute e figure tutte caratterizzate da una racchiusa solitudine. Viene così da pensare che l’individualità di Spazzapan sia quella propria di chi non ha più territori e confini in cui riconoscersi e per questo ne traccia di personali attraverso l’arte. La città affannata è quella che, dall’immaginario e dal sogno, ha rappresentato poi nelle vedute atmosferiche di una Torino sotto bufere di neve, contorta dalle esplosioni della guerra o ancora mostrata come metropoli perplessa nelle sue effimere luci notturne.
L’arte diventa dunque per l’uomo il paese che l’artista porta con sé, l’unico mondo in questo senso inalienabile e, nel caso specifico di Spazzapan, retto da un ordine coerentemente anarchico – nel suo continuo tentare nuovi confini che questionano lo statuto stesso dell’immagine – popolato da figure singolari. Donne, gatti, uomini, santi, teschi e ortaggi anche quando giustapposti, si rivelano risolutamente solitari e irraggiungibili nelle rispettive individualità: lo spaesamento che le associazioni di Spazzapan provocano nell’osservatore, derivano dalla mancanza di un terreno visivo condiviso, ed è forse in questo disagio che Spazzapan trasferisce e supera il proprio stadio di sradicato, privo di un terreno culturale già esistente in cui riconoscersi.
L’individualità dell’artista, come condizione storicamente determinata dal crollo del proprio sistema di provenienza, trascende così in un’arte ironica e, al contempo, scontrosa nel farsi avvicinare, terra di nessuno se non del proprio artefice, che su questa si stabilisce con una sofferta e affannata dichiarazione d’indipendenza.
Questo perché, come ha spiegato più volte Giuseppe Marchiori, Spazzapan era stato sempre dalla parte dei giovani, ed all’avanguardia, in una città solo in apparenza ricca di fermenti rivoluzionari. Si può definire “in contro tendenza” la figura di “quell’artista con gli occhiali da ragioniere, con la cravattina a farfalla, accurato ed elegante”: Spazzapan non è un pittore di idee ma un occhio allo stato puro.
Un “faiseur d’images” – come scriveva lui stesso nel 1946 a Venturi – e “disobbedisce” anche nei momenti della più grande frenesia. Uno spirito che non rinuncia mai alla possibilità “…di sciogliere un inno alla libertà, alla libertà di fare quello che si pensa, quel che si sogna, quel che si ama o si odia” e che crede soltanto “all’estro e all’ispirazione”. L’esigenza di libertà e il dirigersi al punto desiderato sono stati il suo credo che emerge dal vasto mondo figurale che Luigi Spazzapan ha realizzato a metà strada tra realtà e fantasia, con straordinaria fecondità di invenzioni formali.
Spazzapan non disegnava mai dal vero preferiva seguire l’istinto, lasciar correre la mano dietro la sua fantasia lavorando, principalmente, di notte, instancabile, accumulando un disegno sull’altro. Era particolarmente convinto di ciò che faceva, come risulta da una confessione che fece a Velso Mucci: “…se guardo le cose mentre dipingo mi frego, perché corro stupidamente dietro l’oggetto e perdo la pittura. E io non sono proprio niente impressionista”. Di conseguenza nei dipinti degli ultimi dodici anni si ritrova un meccanismo mentale che non si spiega con il ribaltamento, dal negativo al positivo, dell’esperienza esistenziale dell’artista: ciò che lo determina è la crisi della guerra, la caduta del fascismo, il passaggio dall’oppressione alla libertà.
Quando, nel 1954, la Biennale di Venezia gli dedicherà una mostra riassuntiva degli ultimi vent’anni, Luigi Carluccio lo definirà come un riconoscimento tardivo scrivendo che: “La cultura italiana attende che Spazzapan abbia 60 anni per scoprirlo”. “Era un maestro e se ne sono accorti soltanto ora”, titola il quotidiano torinese “La Gazzetta del Popolo” dando la notizia della scomparsa. E ancora Carluccio sottolinea: “C’è un aspetto della solitudine di Spazzapan che trova giustificazione nel costante rifiuto di chiudersi in una cifra, di darsi regole e discipline esteriori, di accettare schemi.
Egli doveva d’istinto restare disponibile ai richiami dell’invenzione e della fantasia. Questo aspetto della sua solitudine si chiama anche libertà”.
Quella libertà che, nel globale, la mostra racconta a cinquant’anni dalla scomparsa del pittore cercando di rendere omaggio ad una artista molto discusso che, durante la sua difficile vita, la critica aveva definito in modo superficiale ed esteriore, quasi si trattasse solo di una figura eccentrica, un po’ ai margini della cultura italiana.
Un recupero quindi, l’evento cheraschese, il quale propone la totalità dell’opera di Luigi Spazzapan a volte, almeno in apparenza, contraddittoria, specie se si considera il periodo in cui è stata realizzata, sprezzante delle regole e delle maniere, eppure così unita, stretta al filone centrale delle sue genuine necessità d’espressione e di stile.
Sui grandi spazi neri o colorati, della serie dei cavalli, dei paesaggi, dei nudi, degli arlecchini, dei mazzi di fiori, della città nella nebbia o nel brivido dell’oscuramento di guerra, dei santoni, delle notti stellate e nei ritratti della Ginia, Spazzapan emerge con il suo gesto pittorico fluente, talvolta aggrovigliato e tuttavia nitido, pulito, intenso. Questo a testimonianza di una personalità più volte definita “bizzarra” e del suo voler essere tenacemente niente altro che se stesso accrescendo, in qualche modo, anche la libertà delle generazioni succedutegli, di stampo artistico e non, che ne hanno conosciuto il fresco e vibrante codice emotivo.
Cinzia Tesio
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