Cherasco – Carlo Carrà – Palazzo Salmatoris
CARLO CARRA’
LA NATURA COME SOGNO
È una grande monografica la mostra di fine anno di Cherasco; dopo aver ospitato, negli anni scorsi, le autorevoli mostre di Picasso, De Pisis, Ligabue, Campigli, De Chirico, Guttuso, Morandi, da Picasso a Fontana, i Fratelli De Chirico a confronto, Chagall Mirò e Magritte, Felice Casorati e la sua Scuola, gli Italiani di Parigi da Modigliani a Campigli, Palazzo Salmatoris, in questo 2008 propone “Carrà. La natura come sogno”, dall’11 ottobre al 14 dicembre.titolo deriva da una frase dell’artista stesso, secondo cui ci sono due modi di dipingere un paesaggio: uno è dipingere un motivo naturale e l’altro, più difficile, è trasformare il paesaggio in “un poema pieno di spazio e di sogno”.
La mostra, che comprende circa settanta opere, ripercorre appunto la ricerca di Carrà come interprete della natura, prima di tutto del paesaggio, ma anche della figura e della natura morta.
Il percorso espositivo documenta, attraverso una selezionata serie di dipinti, tutta l’opera del Maestro, dal giovanile Realismo al Divisionismo, dalla Metafisica al “Realismo mitico”, come lui stesso lo definiva, degli Anni Venti e Trenta, fino agli esiti del dopoguerra.nucleo principale è peraltro costituito dalla produzione “post-Metafisica”; un periodo fondamentale per l’evoluzione artistica del Maestro. Infatti a metà degli anni Venti, un’epoca segnata da grandi rivolgimenti sociali, Carrà si stacca definitivamente dalle esperienze di gruppo per iniziare una ricerca autonoma e solitaria, interrotta solo dalla saltuaria collaborazione con riviste di critica ed estetica come “Lacerba”, “La Voce”, “Esprit nouveau”, “Fiera Letteraria” e, più regolarmente, con il periodico “Valori Plastici” e con il quotidiano milanese “L’Ambrosiano”.
Un poema pieno si spazio e di sogno
Per tutta la vita Carrà ha aspirato a due cose: la prima è dipingere la natura, la seconda è non dipingerla.à, per spiegarci meglio, ha riflettuto in tutta la sua ricerca (se si escludono la stagione futurista e quella metafisica degli anni dieci) sul tema del paesaggio: un tema che, a partire dall’ottocento, è centrale nella tradizione della pittura lombarda e piemontese cui l’artista appartiene, ma anche nei maestri europei, da Corot a Rousseau, cui guarda con interesse. D’altra parte, però, non si è mai accontentato del naturalismo e, affrontando il paesaggio, ha cercato di esprimere quella dimensione di mistero, quella tensione verso un oltre, quella concezione intellettuale dell’arte, che è l’insegnamento più alto della metafisica. Carrà stesso distingue due modi di intendere la natura. Lo fa in un articolo poco noto, tanto che nella pur eccellente raccolta dei suoi scritti (curata con straordinario amore e profonda competenza dal figlio Massimo), dove ne è riportato un frammento, è indicato solo come una “annotazione”, senza riferimenti e senza data.Durante i lavori per questa mostra abbiamo ritrovato il testo integrale. Si tratta appunto di un articolo del 1923, intitolato significativamente paesaggio psicologico, anche se non si può escludere che il suo incipit sia stato inizialmente solo una nota rapida. scrive dunque Carrà nel maggio 1923 su “L’ambrosiano”, recensendo la mostra di un pittore oggi dimenticato,
Giuseppe Spadaro: “Vi sono due maniere di intendere la pittura di paese. La prima consiste nel rendere fedelmente il contorno e la modellatura di un certo raggruppamento di alberi, di monti, di acque e di case. Questo metodo, che diremo verista, non esclude l’idealizzazione nello scegliere la posizione più caratteristica, quella che meglio esprime l’ora e il tempo. La seconda maniera è di fare di un paesaggio un poema pieno di spazio e di sogno, dove gli elementi naturali sono accessori. Qui l’arte è più difficile, in quanto è più ambiziosa”.
Un poema pieno di spazio e di sogno, dunque. E questa l’intenzione principale dell’artista. Lo notava già Longhi, quando, a proposito del del 1926, notava efficacemente che “un simile paese[…] non s’incontraprima scampagnata”.Cioè, potremmo anche dire, non è una veduta realistica, naturalista, impressionista, ma una costruzione mentale. Ma cominciamo ad osservare i temi naturali di Carrà dall’inizio. Nella seconda metà degli anni dieci, dopo le prove veriste degli esordi, l’artista lavora a una serie di paesaggi (uno dei quali fa anche da sfondo ad Ritratto di Emilio Colombo, 1909, qui esposto) in cui gli elementi figurativi tendono a confondersi, secondo la poetica divisionista, in una punteggiatura intessuta di tocchi di luce: in un’unica materia soffice, quasi un’anti-materia, animata solo dal contrasto fra ombre e luci. Quello che Carrà sottolinea è la comunione totale fra i vari elementi naturali, creando composizioni in cui non c’è più distacco netto fra alberi e prati, tra cieli e vegetazione. I paesaggi di questo periodo sono l’eco di un soggiorno di Carrà a Sagliano Micca, nell’estate 1908, che segna per l’artista l’inizio di un modo più intenso e commosso di affrontare la rappresentazione della natura. ricorda egli stesso: ”ho già accennato all’estate del 1908 che trascorsi a Sagliano Micca, ma debbo precisare un fatto che per me segna un punto abbastanza importante nella mia vita. non era la prima volta che potevo a mio agio dipingere a contatto con la natura; in altre circostanze[…] avevo cercato di ritrarre il vero come si presentava al mio sguardo, ma mai come in questo soggiorno del Biellese avevo godutoquiete campestre l’intima gioia del dipingere. La campagna era deliziosa, abbondava di fresche acque e di frutta, tutto verde, tutto ombre, un’incantevole natura!”. Subito dopo, a partire dal 1910, Carrà è tra i fondatori del futurismo, e la sua pittura prende a incentrarsi sui dinamismi della città e della vita moderna. a partire dal 1914-1915, invece, attraversa una stagione primitivista e metafisica, dove la natura è come dimenticata. L’opera è ambientata in luoghi straniati e onirici, e i pochi elementi naturali che ancora vi compaiono (si veda il volto del bambino circondato dai suoi giocattoli in d’infanzia, 1916) sono ricondotti al loro aspetto elementare,La natura torna invece a essere protagonista della pittura di Carrà a partire dal dopoguerra. L’artista stesso parla di un ritorno all’amore per la natura che avviene “dopo l’esperienza futurista e dopo quella metafisica”.Ma, dobbiamo chiederci, a quale natura si riferisce? Quella dimensione di enigma, infatti, che aveva indagato durante la stagione ferrarese, non scompare. il paesaggio ora presenta, sì, una fisionomia consueta, tradizionale o comunque immediatamente comprensibile, ma si vena di mistero e di cadenze oniriche. il , poi, si accompagna a una calibrata costruzione dello : a un’ attenzione, cioè, alle proporzioni, ai ritmi, alle geometrie segrete della composizione.
L’artista stesso dichiara di considerare la natura una “suscitatrice di rapporti pittorici”, che si esprimono “in ritmi di forma, colore e luce”.Il realismo di Carrà degli anni venti, dunque, nasce da una sintesi tra idea e naturao, come si potrebbe anche dire, tra architettura del disegno eà del colore, valori plastici e valori cromatici, razionalità e sentimento, ideale e realtà, progetto e istinto. Muovendo da un’arte mentale come quella metafisica, Carrà vuole, nelle sue opere, conservare la dimensione’, dell’eidos o archetipo platonico, di quella forma assoluta che Raffaello aveva teorizzato quando affermava di dipingere “quella certa idea che mi viene alla mente”. Nascono così, in questi anni, le sue visioni della Valsesia o della Garfagnana in cui i poliedri iperuranici della case si rivelano nel folto del verde. Abbiamo detto case, ma dovremmo dire poligoni pitagorici, cubi ippodamei in veste di cascinali. Carrà ne leviga le pareti, ne elimina i particolari, ne abolisce le irregolarità: li riduce a minimi sistemi cristallini, insieme rigorosi e fiabeschi, risoluti e intimiditi.
Lavora su una sintesi di ascendenza purista, dunque, ma al tempo stesso studia le proporzioni del disegno, la suddivisione della superficie secondo la sezione aurea, la geometria segreta che innerva la composizione. Un cono di fascine, un capanno, una barca, si trasformano in figure geometriche sulla tavola pitagorica della spiaggia. ogni vela è un’ascissa sul diagramma cartesiano del mare. E un pagliaio tornito nell’ambra, senza disordini di stoppie, porta nella campagna toscana qualche memoria dell’iperuranio. Anche la partizione musicale tra rocce e mare, la metrica che governa la distinzione fra acque e terre, la misura che presiede alle distanze fra case, alberi e monti nascono da uno scrutinio implacabile. Carrà calcola, sceglie, compone. E’ convinto, soprattutto, che la manifestazione del visibile abbia in sé i segni di una realtà ulteriore, trascendente. E’ a quella realtà ideale cui si deve tendere: perché non basta dipingere il visibile, bisogna dipingere l’invisibile. Ma, in modo uguale e contrario, per giungervi non si può prescindere dalla natura: perché non basta dipingere l’invisibile, bisogna dipingere il visibile. Tutte le ascendenze della pittura di Carrà negli anni venti (Cézanne, innanzitutto, ispiratore delle opere sesiane del 1924, come Giacomo di Varallo della Pinacoteca di Alessandria; Fontanesi, suo amore giovanile, a cui ha l’occasione di ripensare scrivendone una monografia sempre nel ’24; Fattori, di cui vede la grande mostra a Firenze nel 1925, nel centenario della nascita, commentandola poi su “L’ambrosiano”; Seurat, la cui lezione emerge nella seconda metà del decennio; e non bisogna dimenticare Giotto, Paolo Uccello, Piero, passioni intellettuali di tutta la vita e Rousseau, al cui influsso vanno ricondotti certi accenti più fiabeschi e aggraziati); tutte le reminiscenze che affiorano nel Carrà di questi anni, dunque, si innestano prima di tutto su un’idea, una concezione, una filosofia platonica. E’ questa concezione che dà all’opera una dimensione atemporale. Parlare di “rappresentazione mitica della natura”, come l’artista fa, non significa, per lui, attingere a personaggi o episodi della mitologia, ma uscire dal tempo. L’assenza dell’uomo (o la presenza di figure paradigmatiche e primordiali) dà alla natura una cadenza di eternità. Lo si vede anche nella serie di acqueforti realizzate negli anni venti. Nel 1924 infatti, l’artista, grazie agli insegnamenti di Giuseppe Guidi che quell’anno aveva aperto un laboratorio calcografico nella sua stessa casa di Milano, si dedica sistematicamente all’incisione, eseguendo trentatre acqueforti e stampando i rami che aveva inciso, ma non impresso, nel biennio precedente. sono visioni di marine, di barche, di costruzioni, interpretate come luogo di interrogativi e di silenzio. il porticciolo di Camogli, le case di Belgirate, i monti di Portovenere, le barche di Moneglia sono le occasioni, in senso montaliano, per inscrivere la natura in una tavola pitagorica in cui le forme diventano forme prime. Come in un abbecedario elementare Carrà disegna la cabina giottesca alta e stretta, la barca a due linee, il palo o l’albero cézanniano, la casa liscia come un cristallo. sono figure essenziali, viste ma soprattutto pensate, e alla fine non si sa più se ci si trova in Liguria o nell’iperuranio di Platone: il luogo delle forme assolute che a un certo punto entreranno nel tempo, ma che lì sono ancora geometrie intatte, non gravate da particolari superflui. A differenza della pittura, però, le incisioni conoscono anche improvvise inquietudini, anzi veri scatti di nervi.
Quasi tutte le lastre più piccole, i rami di pochi centimetri che non superano il palmo della mano, sono percorsi da linee disordinate, addirittura graffiate. Ecco allora la vela guasta, il legno tarlato, i muretti a rischio di frana: disegni dai perimetri incerti, che non hanno riscontro nella contemporanea pittura dell’artista e di cui le tavole sono l’unica testimonianza. Ma continuiamo a seguire il percorso di Carrà. Lungo gli anni venti la nitida geometria platonica si ammorbidisce in una morbida massa di materia-colore, ma non scompare. Prendiamo, per esempio, toscano del Museo “Medardo Rosso” di Barzio. Carrà fissa l’incanto di un angolo silenzioso,in cui l’andamento libero e irrequieto della vegetazione è come raffrenato dal poliedro della casa sulla sinistra e dagli edifici sulla destra. Forme aperte della natura e forme chiuse dell’architettura,effusione del colore e controllo geometrico si coniugano armoniosamente,così come il verde smeraldino dell’intonaco si accorda,senza imitarlo,con quello più profondo di alberi e cespugli. Guardiamo, ancora, di campagna del 1929. Qui il sentiero di terra battuta, incerto e irregolare, si interrompe davanti alla nitida geometria del cascinale vuoto, della porta trasformata in un rettangolo nero, dei muri tirati col filo a piombo. Valori plastici e valori tonali, vaporosità del colore e limpidezza del disegno si accostano sapientemente.natura, comunque, è sempre mito, apparizione senza tempo. Lo dimostra anche sulla spiaggia del Museo Revoltella di Trieste, emblema di un’umanità arcaica, insieme dimessa e titanica. Vestita nel corpetto come un’amazzone greca, sbozzata invece nella lunga gonna come una statua medioevale (anche il suo profilo ricorda i pittori della bottega giottesca), la giovane donna è distesa tra le chiglie di due barche, mentre il mare rumoreggia in alte ondate dietro di lei. non siamo di fronte solo alla rappresentazione di una figura primordiale, ma anche alla consapevolezza di quanto nell’uomo si ripete uguale nei secoli e travalica gli apparenti mutamenti della storia.
Anche questa donna, come Patominos nella notte di Roth, potrebbe dire: “Gli uomini sono sottoposti alla legge del cambiamento. E’ una legge ingannevole, perché non esiste cambiamento”. L’arte, del resto, per Carrà non nasce dall’immediatezza del momento, ma dalla complessità della memoria. E’ un concetto, questo, che troviamo anche in Soffici, legato a lui da una lunga amicizia: “L’essenza dell’arte è la nostalgia e il ricordo, e non si può rimpiangere o ricordare in luce poetica ciò in mezzo a cui viviamo.[…] Un’opera d’arte è più bella, più grande[…]quanto meno ritrae dell’aura transitoria dominante nel momento in cui fu creata”, scrive Soffici. Non bisogna credere, però, che Carrà svaluti il dato naturale, che anzi è il punto di partenza della sua ricerca. Certo, per lui la suggestione dei luoghi è solo il primo apparire di una visione che dovrà essere completata nella mente, e poi in studio, anche mesi dopo, nell’umido inverno milanese, lontano da marine e pinete, campagne e montagne. Eppure anche il dato fisico ha un significato non secondario. sentiamo, per esempio, una testimonianza di Bertocchi del 1931, che così racconta la genesi del : “Carrà sta dipingendo una calma scena di paese: dei monti che si specchiano nelle acque di un golfo, sulle quali è immobile una barca tenuta ‘in posa’ da un omino servizievole.
La luce è buona, il motivo si presta a una traduzione lenta e meditata, il quadro riesce. tutt’a un tratto il vento s’intromette furioso, butta all’aria ogni cosa: livide nuvole scavalcano i monti che si fanno mossi e paurosi come il cielo in tempesta. Le acque si gonfiano, la barca si mette a rullare, l’omino tira a mettersi in salvo; Carrà urla rivolto ai ‘modelli’ parole che si perdono nel fragore del vento, tien saldo il cavalletto e la tela, e si butta, furioso ed esaltato, a dipingere tutto di nuovo”. Quello che Carrà rifiuta dunque, è il vedutismo banale, l’educato verismo convenzionale, non il confronto con la natura. Lui stesso, anzi, ne sottolinea l’importanza come fonte di ispirazione, e come genesi dell’opera: “Con il pretesto che la natura è distinta dall’arte, certa critica è giunta al disprezzo della natura. Eppure l’artista ha bisogno di una materia da forzare o da trasformare”.
Dalla fine degli anni venti, comunque, nuovi accenti si insinuano nell’opera di Carrà. La mostra tenuta a Milano alla Galleria Bardi nel 1930, in cui espone con soffici, chiude idealmente il periodo fondamentale del realismo mitico. nei suoi paesaggi si avvertono ora stesure più mosse e, dalla grafia più rapida e approssimativa, ora esiti più apertamente lirici. nella consueta sobrietà della composizione penetra una dimensione emotiva più intensa, che farà parlare talvolta di “neo-romanticismo”.è un esempio (Capo di Atrani),1936, della Collezione della Provincia di Milano. ispirata all’omonimo paese della penisola sorrentina, nei dintorni di Amalfi, l’opera è modulata su una sinfonia di tonie verdi, cui fa da contrappunto la rossa architettura di mattoni sulla sinistra. il naturalismo del soggetto e l’effusività del colore, però, si venano di un senso tutto mentale di sospensione e di attesa, che richiamaprecedenti atmosfere metafisiche. La meditazione sulla natura dell’artista prosegue nei decenni successivi,se la ripresa della figura monumentale, negli anni trenta, e l’estrema rarefazione compositiva, nel dopoguerra, introducono nuove problematiche nella sua pittura. Le opere degli anni cinquanta e sessanta, infatti, sono caratterizzate da un’assoluta essenzialità, da una progressiva semplificazione degli elementi compositivi. E’ come se Carrà, nel momento finale della sua vicenda artistica, sia arrivato a eliminare tutto ciò che di superfluo esiste nelle cose, e a concentrarsi su pochi segni, poche linee, pochi elementi. Il meno è il più, insegna la sapienza orientale. E anche gli estremi paesaggi di Carrà sembrano testimoniare quello che diceva un filosofo da lui molto amato in gioventù, Friedrich Nietzsche: “Chi toglie, non chi aggiunge, è un artista”.
Elena Pontiggia
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