Cherasco – Raffaele De Grada – Palazzo Salmatoris
RAFFELE DE GRADA E IL NATURALISMO MODERNO
MIO PADRE, RAFFAELE DE GRADA
Mio padre Raffaele trascorse tutta la prima parte della sua vita a Zurigo,di Antonio pittore e decoratore emigrato in Svizzera alla fine del secolo scorso,tenendo poi rapporti stretti con la sorella Elvezia e col di lei marito FranzWebwer che fu un buon collezionista dell’arte elvetica della prima metà delsecolo.padre durante la sua vita dedicata completamente alla pittura ebbetempi di creazione: il primo, giovanile, dal 1900 al 1918, sorretto dalla praticaaiuto nelle decorazioni anche di vasto impegno del padre Antonio e da studicon dotti nelle Accademie di Dresda e di Karlsruhe negli anni splendidiSecessio ni mitteleuropee, fu segnato da felici viaggi in Italia – nel Lazio, ine spe cialmente in Toscana – nella scia, comune a quei tempi nei pittori delEuro pa, della nostalgica ispirazione del paesaggio classico, e d’altra partepittura di montagna di cui Giovanni Segantini, amico fraterno del padre Antonio,stato l’esempio proprio in Svizzera, dove erano altri illustri artisti ispiratimonta gna, da Hodler ad Augusto Giacometti, padre dei più noti Alberto eLa conoscenza di mia madre Maddalena (detta poi Magda) Ceccarelli, unadi scuola e poeta di San Giminiano, e la prima guerra mondiale interrupperope riodo svizzero di mio padre ed aprirono dopo il 1919 il periodo toscano (1919-1929), più conosciuto per i rapporti che De Grada ebbe con il gruppodel Nove cento e per le sue continuative presenze, dopo il 1922, alleveneziane fino alla sua «personale» del 1928, nonché in mostre internazionalila Carnegie di Pittsburgh dove fu anche premiato. Questo periodocontraddistinto dalla vo lontà di adoperare la moderna visione di Cézanne pernuova lettura dei primiti vi toscani che De Grada studiò profondamente, anchelibere copie da Bartolo di Fredi al Barna di Siena, prima e a San Giminiano (1920-1922), poi a Firenze (1922-1929).ricorda che tale interpretazione moderna dell’arte primitiva, culturalmenteversa dal «gusto nai’f» che prevalse poi, fu uno degli assi portanti’arte del Nove cento non soltanto italiano ma anche europeo, come oggi si va precisando. E perciò che quando De Grada «rimpatriò» a Milano, secondovecchia aspirazione pa terna che con naturalezza si realizzò nel figlio, era moltocome pittore illustre del Novecento italiano che egli aveva collaboratodiffondere in Toscana, come qualcuno ricorda ancora. Ma – ed è ciò che mipiù lodevole nell’arte di mio padre – egli sentì il pericolo che uno «stile»,lo seguì fino all’affresco del la Triennale del 1933, potesse diventare uno «stilismo» e si aprì confortato dalla ver de risonanza del paesaggio lombardo e attentoinquieti seppur confusi sommo vimenti dei giovani amici che diventarono poiartisti di Corrente, ad un arte di li bera interpretazione della vita degli alberi eerbe in natura dove il flusso dell’esistere si placa ed è sempre diverso, per cuichiuderlo in uno stile mentale si gnificherebbe esaurirlo ed alla fine estinguerlo.ò De Grada che era stato un pittore del Novecento, non diventò undel «novecentismo» e dal 1931 all’anno della sua morte (1957) attese adarte di me diata e serena ricerca di spazi lirici e di varianti tonali secondo leore del giorno e delle stagioni ma con una solidità di materia che gli derivalunga pra tica postcézanniana. I paesaggi lombardi e toscani, ma anche di, di Liguria e ancora di montagna (Bardonecchia, Sestrières, Macugnaga,di Svizze ra), le «nature morte» studiate nella sintesi di natura e forma,figure, tra le quali i ritratti, sono stati illustrati da una critica che non ha maidall’elogio, anche se ha quasi sempre evitato una collocazione storica chenostri tempi sem bra così difficile per gli spiriti liberi delle tendenze preordinateteorie che per dono sempre più validità di storia per concludersi nell’effimerogusto. De Grada, che ha sempre nutrito una sfiducia motivata per l’effimerodi retorica e non soltanto fascista, ha seguito con interesse culturale tuttevicende del «moderno» per rafforzarsi in un idea originale di poetica del verochiede al le giovani generazioni di essere intesa al fine di un progresso di civiltà,si realiz za riassorbendo le necessarie e storiche «rotture» senza dimenticarleanche senza esserne subalterni.
Raffaele De Grada Jr.
RAFFAELE DE GRADA E IL NATURALISMO MODERNO
Raffaele De Grada credeva fermamente nel valore universale della natura,suo ruolo purificatore e totalizzante nell’esistenza dell’uomo, tanto da nonfare a meno, da risultarne perennemente ammaliato, creando con essa’osmosi profonda di corpo e di spirito, ripercorrendo nell’arte uno dei principifilosofia della natura del pensatore Friedrich Shelling (1775-1854), massimodell’idealismo tedesco con Fiche ed Hegel, secondo cui la natura costituisceorganismo universale nel quale opera un unico principio vitale, l’animamondo… e così pure, per l’autore, l’anima dell’artista. Attingendo a tale presupposto,alla sua cultura e formazione mitteleuropea, risulta evidentela modernità e l’attualità del naturalismo di Raffaele De Grada nasca dallapersonalissima interpretazione del reale, dalle istanze rinnovatrici dei primidel ‘900 sviluppatesi nel centro Europa, in Svizzera e Germania soprattutto,crebbe e si formò agli studi accademici. A Dresda, dove De Grada studiò,’autore venne in contatto con “Die Brücke”, uno dei due principali movimentitedeschi del primo Novecento (l’altro è “Il cavaliere azzurro”, nato a MonacoBaviera nel 1911), che produsse anche nudi e paesaggi di natura arcadicitendenti ad una visione primitivista, con l’intento di creare un ponte, appunto,passato e futuro, tra accademismo ottocentesco e impressionista e una pitturaTale naturalismo moderno nasce però anche da uno sguardo indagatoremolto personale sulla e nella natura, che ha saputo coniugare, nelle varie stagioni, dalla formazione tedesca e svizzera agli anni lombardi, anticocontemporaneo: dai primitivi italiani e dalla lezione compositiva, matematica e, rinascimentale di Piero della Francesca, al rigore e al classicismo formaleNovecento Italiano, passando attraverso il tonalismo lirico di Corot (il vaporoso “Primavera a Giramonte”) e la dolcezza pastosa della tavolozza di Bonnard (“Nudo con tenda gialla”, “Nudo seduto”), fino alle affinità cubiste di una sua breve(“Caffè Vero Brasile”) e ai più potenti influssi ed esiti post impressionisti dell’amatissimo Cézanne (“Il grande bosco”, le tante, splendide nature morte, ad). Sono, questi, gli anni fervidi che iniziano con il soggiorno di San Gimignanodi Firenze, tra il ’19 e il 21 e tra il ’22 e il ’29, quando De Grada si immergequell’atmosfera culturalmente stimolante, vivacizzata dalle polemiche, dalle, dalle idee di Rosai, Lega, Berto Ricci e ‘L’Universale’, Montale, Carocci,e la rivista ‘Solaria’, con i musicisti Castelnuovo Tedesco e Dalla Piccolapoi Andreotti, Carena, Colacicchi, Soffici e Romanelli, Ginzburg e Solmi: spiritia una libertà e a una indipendenza ideale e internazionale, al di là di ognie censura imposte dalla politica e dal potere. E’ in questi anni che maturavisione della natura intrisa di reminiscenze storiche, di studi sull’antico e sul(Cézanne in particolare, ma non solo), da cui l’artista seppe trarre la suastilistica e di gusto, guardando alla tradizione più alta, d’accordo, ma attentomantenere intatto il proprio originale sentire. De Grada si riscoprì anche, in unastagione della sua vita, dopo l’arrivo a Milano a partire dagli anni Trenta,ai giovani artisti del tempo, in special modo agli esponenti di ‘Corrente’,nel capoluogo lombardo tra il ’38 e il ’43, in cui ‘militava’ il giovane, futuro genero di De Grada, avendo in seguito sposato la figlia Lidia. Concondivise gli afflati antifascisti, lottando idealmente e artisticamente contro unche tendeva ad uniformare l’arte, tramite il mentore Margherita Sarfatti,valori estetici della classicità, valori a cui De Grada aderì comunque, ma solo, in alcuni esiti della sua pittura. E’ durante la sua stagione lombarda,si protrae fino alla morte, nel 1957, che la tavolozza di De Grada assume cromatismiù spiccatamente terrigni, di verdi e marroni ubertosi, ricoperti da unadi nebbie e rugiada, maggiormente improntati ad una maturità compositivae modernissima. Basti pensare al verde acceso, declinato in tonalità, di una delle opere storiche del maestro: “La Canonica al Lambro”. Detrova il coraggio artistico ed estetico, accompagnato da malizia compositivatecnica, di inserire le rotaie nel lussureggiante naturalismo del luogo. Espedientegli serve per condurre l’occhio dell’osservatore all’interno dell’opera, maper raccontare la modernità coniugata alla natura e al reale. Sempre lontanoogni concessione ottocentesca al pittoresco, l’arte di De Grada rimane unadi luoghi, momenti, memorie. Per questo risulta tanto coinvolgente e rasserenante,é attraverso la natura, così documentata e fedele al reale, attraversoritratti, dai lineamenti familiari, conosciuti e amati, è possibile tracciare l’esistenzaun uomo, dei suoi affetti, perfino dei suoi segreti e pensieri più intimi. In De, questi formavano un tutt’uno col suo mondo, che non ha mai pretese dià, come per altre grandi scuole di pensiero, ma trova la propria grandezzanell’individualità genuina del sentimento e dell’emozione.
Guido Folco
RAFFELE DE GRADA: UN ROMANTICO NATURALISTA DEL SECOLO SCORSO
Novecentista come Cezanne, romantico come Corot o pittore naturalista? Ancora: lombardo o toscano?” così Sebastiano Grasso iniziava il suo intervento sul Corriere della Sera in occasione di una retrospettiva dedicata al Maestro lombardo tenutasi anni addietro al Palazzo della Permanente di Milano. E Leonardo Borgese, sempre sul Corriere, lo aveva definito “uomo del popolo vissuto però sempre in mezzo alla cultura” mentre in un’annotazione di Eugenio Montale emergeva che l’osservatore dei suoi quadri era “preso e trasportato nello spazio senza tempo della poesia” poiché De Grada si accostava alla tavolozza con un piglio aristocratico – poetico, riassunto in tutto quanto emerge da questa rassegna, ricca di ben sessanta opere (che spaziano dal periodo svizzero a quello lombardo e toscano) ulteriore omaggio ad uno straordinario artista che, finalmente, la critica pare aver di nuovo portato alla luce. Lasciato, infatti, un po’ in disparte dopo la sua scomparsa (come successo a tanti autori non legati a gruppi o gallerie “di spinta”), a Raffaele De Grada (1885 – 1957) non sono invece mancati riconoscimenti quando era in vita. De Grada partecipò dal 1922 al 1954 alla Biennale di Venezia, e ciò in un’epoca in cui essere presente a taleevento era una consacrazione, ed addirittura, nel ’58, l’Ente gli dedicò una personale curata da Carlo Carrà. Un’evoluzione strabiliante per un artista, dopo un’infanzia movimentata a causa degli spostamenti della famiglia,iniziare la propria carriera artistica a Zurigo dove il padre Antonio, anch’egli pittore, si era trasferito poiché aveva ricevuto molti incarichi come decoratore di palazzi pubblici. Il giovanissimo Raffaele aiutava il padre ed intanto iniziò a frequentare l’Accademia di Dresda, per i primi due anni di corso, trasferendosi poi a quella di Karlsruhe, molto più vicina a Zurigo, ed interessandosi, tra l’altro, all’impressionismo del Thoma e del Trübner nonché alla Secessione bavarese. In Italia l’artista amava tuttavia trascorrere lunghi periodi estivi nell’Italia centrale, dove conobbe Magda Ceccarelli, che diventò sua moglie. I suoi soggiorni in Italia divennero così sempre più frequenti sino al trasferimento, dopo la I guerra mondiale, a San Gimignano e poi a Firenze, nel 1921. Qui De Grada approfondì quell’interesse paesaggistico che gli fornì, in seguito, esito nelle gallerie di Zurigo, muovendosi però verso nuove soluzioni. Il pittore cercava ora di ricostruire l’immagine del paesaggio sulla base di un impianto più moderno, quasi geometrico e di matrice cézanniana, ma legato “alla natura e allo stato d’animo”. A partire dagli anni ’20 De Grada ottenne sempre maggiori riconoscimenti partecipando, oltre che alla già citata Biennale veneziana anche a quella romana e poi alle Quadriennali, apprezzato da molti artisti del gruppo del Novecento, il movimento più polemico del tempo, e venne considerato egli stesso un novecentista. L’ultima fase di sviluppo della sua ricerca artistica fu però determinata dal trasferimento a Milano, nel ’29, che lo vide aderire al movimento di Corrente, che in quell’epoca fadcista equivaleva sia a una opposizione politica, che estetica. De Grada partecipò appassionatamente alle polemiche intorno alle teorie antinovecentiste e collaborò attivamente alla rivista “Corrente”. Commentò lo stesso De Grada qualche anno più tardi: “Elemento di Corrente è stata la convinzione dei suoi componenti che la rivoluzione non fosse ancora conclusa definitivamente; che i contenuti di libertà che l’avevano animata erano ancora da esaurire; e che quella rivoluzione, doveva essere ricondotta alle origini. Il processo verso l’astrazione era stata la sua Involuzione. Il progresso verso il realismo era stata la sua evoluzione.” Il pittore, del resto, fu sempre paesaggista nonché artista rigoroso che sapeva dosare le masse dando vita a strutture «architettoniche », quasi sempre prive di figure umane od animali, all’insegna del perfetto equilibrio. De Grada amava i sobborghi cittadini, colline lombarde, senza dimenticare, però, la Toscana, dove la tavolozza si colora con colori solari dettati da una felicità esistenziale. I colori lombardi,, avevano timbri diversi: azzurri tenui, rosso – ocra, verde – smeraldo.sfumate, per lo più. […] Raffaele De Grada ha dimostrato che è possibile coniugare sensazione e riflessione; che l’occhio, il cuore, la mente concorrono insieme alla comprensione approfondita della realtà, esattamente come fu per Cèzanne a cui egli molto si ispirò. […] C hiaro esempio del coraggio di rinnovarsi pur rimanendo fedele ad una sua lettura originale della realtà, alla sua interpretazione della natura, al desiderio di apprendere una cultura letteraria e storica in grado di completare la propria formazione in una visione globale e unitaria del sapere. […]
Cinzia Tesio
MEMORIA BIOGRAFICA
Gli amici del Comitato Esecutivo della Mostra antologica retrospettiva mi hanno fatto l’onore di chiedere a me, che sono suo figlio, la biografìa del pittore. Io avrei preferito che la biografia di R.D.G. fosse scritta da un altro. Ma gli amici hanno insistito, con l’argomento che io l’ho conosciuto più da vicino e mi son lasciato convincere. Però voglio essere ancora più sincero del solito, senza nulla nascondere, tacere e, tanto meno, dilatare o rimpicciolire. I fatti di una vita di settantadue anni sono molti. Ma credo che al pubblico interessino soltanto quelli che aiutano a capire l’arte di un pittore semplice come mio padre. Mio padre ha dipinto quasi tutta la vita il paesaggio toscano. Ma egli è milanese, nato a Porta Genova il 2 marzo 1885, primo di cinque figli. Molte chiese della provincia lombarda e piemontese sono state decorate da affreschi del padre Antonio (p.e. S. Biagio di Monza, Stresa), che in uno di questi
pellegrinaggi di lavoro, a Mede Lomellina, conobbe appunto Teresa Amelotti, mia nonna. Sembra che in famiglia sia stata sempre coltivata la pittura, da generazioni. Ma per Antonio De Grada, che lavorava come un artigiano, con una famiglia che cresceva e pesava, la pittura di cavalletto era un lusso, passione del tempo libero. Si conservano di lui alcune squisite tavolette, serrate come piccoli Boudin, dipinte durante un viaggio verso Buenos Aires, nell’emigrazione conseguita ai fatti del ‘98, che resero per molti difficile la ricerca del lavoro. Dell’America mio padre ricordava soltanto una gran malinconia di bambino che un giorno, arrampicatosi con il fratello Edoardo sopra i solai, viste in lontananza, nel porto di Buenos Aires, le cime degli alberi dei bastimenti, cominciò a gridare; «La Madunnina, la Madunnina del Dòmm! ». E qualche settimana dopo, poiché sembra che quella nostalgia fosse condivisa in famiglia, dove tutti pensavano che era meglio esser poveri, in patria che fuori, i genitori e i figli ormai cresciuti a quattro, si reimbarcano.
Ma in Italia mio nonno non trovò più lavoro. Ci scapitarono le chiese nuove di Lombardia e fu invece un vantaggio per i palazzi cantonali, delle poste e per le chiese della ospitale Svizzera, dove mio nonno lavorò fin quasi ai suoi ultimi anni. Mio padre dovette a quindici anni ricominciare gli studi, in tedesco, a Zurigo. Neppure da vecchio gli era passato l’incubo dei banchi troppo stretti per lui, della lingua ostrogota, delle risate alla farinata della pinaglia svizzera, cosi contenta di poter manifestare la superiorità della sua razza verso il timido «tchinkali». Fu questa la ragione per cui D.G. non s’inoltrò al di là della « Secundarische Schule », passando presto ad aiutare il padre nel « Geschäft » di decorazione, mentre già lo conoscevano tutte le prode dei fiumi e dei laghi intorno a Zurigo, nelle lunghe camminate con la cassetta dei colori e il cavalletto, dalle quali si riposò soltanto sul letto di morte. Il padre Antonio era un decoratore tiepolesco, abilissimo. Ma sapeva bene scegliersi gli amici pittori. Fu specialmente in comunione con Eugenio Gignous, in Italia, e in Svizzera si recò più volte a trovare Segantini, al Maloia. Per lui la pittura vera era una passione infelice, come una fidanzata con cui si è rotto per un matrimonio d’interessi. Perciò Raffaele crebbe con l’orrore per la composizione di figure, per la pittura di soggetto, che istintivamente egli collegava al manierismo che aveva schiacciato la pianta paterna. Per ritrovarsi aveva bisogno di isolarsi, in mezzo agli alberi, vicino alle acque, più lontano possibile dalla vita dell’«azienda» paterna; e fuggiva sempre più spesso verso la montagna. D.G. non pensava affatto di poter vivere con la pittura. Invece ebbe successo contro sua voglia; trovò un gruppo di collezionisti e un mercante (Neupert) che gli dettero da vivere. Poteva ormai soltanto dipingere. Nel frattempo D.G. si era recato prima a Dresda e poi a Karlsruhe, a studiare in quelle Accademie dove batteva alla porta la Secessione bavarese, a risvegliare la vecchia scuola paesistica di Hans Thoma e di Bracht, sono gli anni dell’immediato anteguerra. La Secessione di Monaco non impressionò molto mio padre, che aveva una natura classica, italiana e che sentiva la violenza del colore come un fuoco di Sant’Antonio sulla pelle. Oggi si fa a gara a trovare degli antecedenti «moderni» agli artisti, senza preoccuparsi invece di vedere se «moderni» sono diventati dopo, con le loro forze. Mio padre preferì di molto viaggiare sempre più spesso verso l’Italia, saltando sopra la Lombardia, un’Italia, che egli riconobbe da S. Gimignano ad Anzio, da Orvieto a Firenze, fintantoché, col passare degli anni, egli si attaccò sempre di più al cuore della Toscana. In uno di questi pellegrinaggi, a S. Gimignano, conobbe mia madre.
Come conciliare i primitivi, i quattrocentisti, con quel poco di verismo neoromantico che egli aveva in un primo tempo accettato? Come mettere d’accordo la collina con la montagna? C’era stato un pittore, Cézanne, che aveva risvegliato la struttura degli antichi per, rianimarla alla vita moderna. Lo studio degli antichi, la passione per Cézanne, la nostalgia di mia madre per l’Italia che vide oltre il successo svizzero, infine la guerra, trasferirono mio padre definitivamente in Italia, prima a S. Gimignano e a Firenze (dopo la guerra), poi a Milano. Qui comincia la vera e propria biografia artistica di mio padre. Il mio compito è però soltanto quello di raccontare i fatti. Due anni a S. Gimignano tra lo studio degli affreschi e la campagna (1919-1921), otto anni a Firenze (1921-1929). Se a S. Gimignano capitavano parecchi artisti stranieri di valore, Ceria p.e., a Firenze l’ambiente italiano era in quegli anni estremamente vivo. Le « Giubbe Rosse », lo studio e la casa di Libero Andreotti, il gruppo dei letterati di «Solaria» e i caffè di Gigli e Paszkowski, “la galleria Gonelli e la stessa Accademia di Belle Arti, dove allora Carena teneva Scuola, il Salviatico, che era una meta della Scultura ufficiale, differenziavano e animavano una città dove anche la casa, di Giramonte, appoggiata alla collina della Torre al Gallo, diventò un punto, d’incontro di artisti e letterati fiorentini, milanesi e di altre parti. Furono quelli anni culturalmente fervidi che si possono sommariamente così riassumere: una lenta e ormai matura rielaborazione della lezione di Cézanne come conclusione dell’adorato Ottocento francese, allargando il campo dell’esperienza culturale ai contemporanei tra i quali, in quel momento, mio padre predilige Derain. E qui si innesta il periodo del Novecento, del quale movimento D.G, diventa l’elemento di collegamento a Firenze. Del Novecento mio padre condivideva le idee di costruzione, di ripresa antiottocentesca della misura antica, di primitiva purezza. Tuttavia la luce, il colore moderno, conquista degl’impressionisti nella ricomposizione cézànniana, guadagnavano ogni anno nel suo animo la posizione che poi tennero solidamente, con un progresso che è divenire personalissimo di uno stile autonomo, sempre più fino alle ultime opere. II contatto, che diventa sempre più stretto, con gli artisti del Novecento milanese e alcune mostre fortunate alla Galleria Milano che era allora del primo, in ordine di tempo, mecenate o mercante d’arte moderna italiana, il vecchio Gussoni, insieme a questioni familiari, lo inducono a lasciare Firenze per Milano (1929). Firenze dal 1920 al 1930 era una città molto viva, come ho detto, con un ambiente di letterati, di artisti, di musicisti in pieno fermento; come non lo è stata più in seguito. Rosai, Achille Lega, Berto Ricci e «l’Universale», Montale, Carocci, Bonsanti e «Solaria», con i musicisti Castelnuovo Tedesco e Dalla Piccola; Andreotti, Carena, Colacicchi in aperta polemica con Romanelli e Soffici; le divisioni di idee e di gusto erano forti e non cedevano ancora il passo a quel trasformismo bottegaio che ha caratterizzato più tardi l’ambiente artistico italiano. Il successo e il danaro erano addirittura considerati elementi negativi per i veri, autentici artisti. I critici d’arte non erano corteggiati come strumenti necessari per l’affermazione, ma considerati un sottoprodotto dell’arte e tanto più ufficiali, tanto più esseri dai quali guardarsi. Quando arrivavano i collezionisti stranieri o gli organizzatori di grandi mostre internazionali (come quella di Pittsburgh) era un punto d’onore fare acquistare quadri anche agli amici e ai colleghi stimati. Ricordo che mio padre ne faceva a volte una condizione per esporre lui stesso. Allora dal 1920 al 1930, mio padre non era un isolato: chiamerò quella la stagione delle idee e delle amicizie.
Più tardi a Milano, dopo il 1930, la situazione cambia. La crisi economica del 1929 ha spazzato dall’Italia i collezionisti stranieri e in Italia ce n’erano ancora pochi. Mio padre si è sempre contentato di vivere semplicemente e a Firenze ogni quadro venduto era considerato una piccola fortuna. L’ambiente milanese – il cordiale gruppo della Pàsticceria Marchesi e del Savini – era apparentemente meno diviso. Ma in fondo ognuno pensava per conto suo e Dio per tutti. Ci fu qualche anno duro e D.G. fu costretto ad assumere un insegnamento alla Scuola d’Arte di Monza. Mio padre stava volentieri con i giovani, che amava molto (e alcuni allievi lo ricordano anche oggi), ma partiva dal principio che il tempo della scuola era perduto, per lui e per i giovani, che egli non aveva nulla da insegnare, se non un mestiere che si impara in tanti anni con fatica. In fatto di scuole d’arte la pensava in fondo come Fattori, come Grubicy, come gl’impressionisti. Pur legato da profonda amicizia con gli artisti del Novecento – in particolare con Tosi, Funi, Salietti – sempre in contatto con i suoi colleghi alla Scuola di Monza (Arturo Martini, Semeghini, Marino), ammiratore dell’arte di Carrà e di Sironi, D.G. tuttavia comincia a isolarsi, rinnova in parte la sua pittura al contatto della città natale, di cui esplora gli angoli più modesti della periferia urbana, dalle parti di Porta Romana e di Taliedo, fino a toccare la campagna di Melegnano, del Lambro, dell’Adda. Più tardi preferirà il nord milanese: Canonica del Lambro, Carate, la Brianza. E’ verso il 1934-’35, ormai nel suo studio di Via Omboni 1, dove, gli amici lo vennero a salutare per l’ultima volta senza più vita sul divano dove soleva riposarsi il pomeriggio, che D.G. ricomincia a partecipare, a modo suo, alle idee dei più giovani. Sentiva necessaria una ripresa della tradizione moderna quale discendeva dall’Ottocento francese nella linea Corot- Cézanne, una rivincita del colore, della chiarezza (non del chiarismo) sullo schematismo, del tono sul chiaro-scuro. Idee che, con diverse origini, animavano anche i migliori giovani seguiti al Novecento. A ciò si accompagnava lacrescente insofferenza per l’intrusione tentata, ma sempre isolata e respinta, dal fascismo di inserirsi sul piano dell’arte. D.G, antifascista da sempre, vedeva con simpatia la giovane generazione che prendeva posizione contro la dittatura, per quanto egli abbia sempre rifiutato di considerare stretto il collegamento tra la tematica artistica e quella civile e tanto più politicosociale. II contenuto era per lui nell’atteggiamento di fronte alla natura e allecose, nel significato della pura creazione poetica, nel rapporto uomo-mondo
sensibile. Dalla casa e dallo studio di Via Omboni 1 sono passati quasi tutti gli artisti delle generazioni più giovani da Sassu a Manzù, da Guttuso a Morlotti, da Birolli a Treccani. Mio padre era estremamente aperto alle loro esperienze. Non l’ho mai visto, preoccupato di aggiornarsi. Questa tentazione non gli passò mai neppure per la mente. L’avrebbe respinta come indegna di un artista. Tanto più riconosceva e considerava l’apporto di cultura viva dei giovani che si aprivano una strada che non fosse di pedissequo omaggio alla «moda» e al gusto, ma una affermazione di personalità e di poesia. Con questa caratteristica che tendeva a isolarlo da quelli della sua generazione, senza che, d’altra parte, egli assumesse pose da ringiovanirlo artificialmente, mio padre diventa sempre più un isolato, fuori dai gruppi mercantili e dalle clientele critiche. Qualche piccolo guaio politico del figlio fa il resto; e di questa difficile condizione il riconoscimento del valore di mio padre (di qualunque grado esso sia) risente anche oggi. Invece la sua pittura, in questi anni, piace sempre di più al pubblico di coloro che comprano i quadri per il gusto di aprire in casa propria una finestra sulla poesia della natura. So bene che oggi si disprezzano da parte di molti i pittori le cui opere non sono acquistate come francobolli di pregio, ma come frammenti di creazione poetica. A mio padre importava di lavorare, avere quel minimo di tranquillità per immergersi nella pace dello studio e della natura. Se il suo cliente era veramente un appassionato, ne godeva come un bambino.
Gli portava magari a casa un disegno, un acquerello, per ringraziarlo della gioia che gli aveva procurato con la tangibile dimostrazione di comprensione per la sua arte. Bisogna essere obbiettivi nel ricordo e non si deve aggiungere nulla, nulla abbellire. Dirò dunque che quando – e siamo ormai agli anni del do- poguerra – l’ambiente si è fatto più spietato e la dittatura dei grandi critici e della burocrazia delle Belle Arti ha condizionato la vita di tutti gli artisti italiani, ho visto più volte la serenità di mio padre annuvolata da un cruccio di cuore. Ma gli passava subito, nella considerazione che nessuno poteva togliergli la gioia del lavoro e la calma attesa del tempo che avrebbe fatto giustizia. Una giustizia relativa, s’intende, perché D.G. non si è ritenuto mai un grande pittore, se i grandi si chiamano Cézanne e Corot, Beato Angelico e Poussin. Ma ben pochi tra i contemporanei egli, per la verità, riteneva grandi. A lui importava produrre, a lui piaceva la natura, la pittura, la vita senza scosse ma senza compromessi. Era agli antipodi della politica, come modo delle relazioni umane. Negli anni della guerra aveva sofferto molto per la sorte dei suoi figli, del suo paese, del mondo. La dittatura e la guerra erano mali tremendi, per lui incomprensibili. Perché? Il sole, gli alberi, i rivi, le erbe, i muri slabbrati, il sogno a occhi aperti; perché tanto inutile soffrire? Non faccio letteratura; me ne guardo. Cerco soltanto di spiegare perché per qualche anno egli non riuscì a star tranquillo né nel rifugio di Ghiffa (dove aveva una casetta in prestito), né al suo Forte dei Marmi, dove il volto di certi personaggi lo irritava, e neppure a S. Gimignano, che tuttavia gli apriva sempre più affettuose le traccia paesane. Soltanto la passione di quegli anni, come più tardi l’amore dei bambini suoi nipotini, riuscirono a distrarlo parzialmente dalla pittura, per la quale egli viveva. E si comportò anche allora, con l’accento che i tempi comportavano, secondo quella coerenza di carattere che gli ho sempre conosciuto.
Gli capitò poi, a lui pittore moderno, buon artista e per di più anticonformista, di essere dopo la guerra messo al bando dai Lionelli Venturi e altri reduci del genere. Io non voglio pesare sulla sua fama, ma debbo essere sincero. Fa comodo prendersela con gli onesti, coi miti, con gli stoici, nell’epoca della sfrenata cupidigia di arrivismo. D.G. è stato uno di quelli dei quali alcuni potentati hanno voluto dimenticare la storia, le virtù, soffocare il sorriso. Vana consolazione dire che il tempo rimedierà a tutto. Il tempo lo fanno gli uomini, gli uomini sono al guinzaglio dei potenti perché ognuno deve vivere e ognuno deve sacrificare gli altri per salvare se stesso. Mio padre non si è mai rassegnato a questa legge e ha vissuto nei dieci anni dopo la guerra, quando lo si voleva convincere che arte vuoi dire nulla esprimere, balbettare impotenti, sostituire il rotocalco al cavalletto, la réclame al lavoro, ugualmente sereno, felice davanti al motivo, sicuro di campare l’indomani,sempre più immerso nello studio dei suoi cari maestri, antichi e moderni.
Nell’estate prima di morire, come a sciogliere un voto, D.G. si è recato con sua moglie a Aix in Provenza, alla inaugurazione della mostra di Cézanne. Benedico quel console spagnolo che, rifiutandomi un visto, dirottò le mie vacanze a Aix e mi permise di assistere alla gioia di mio padre nello studio del maestro provenzale, sulla costa della Sainte-Victoire, in mezzo alle terre rosse di Saint-Pélerin, della Tolonnaise, di Gardanne. Fu l’ultima estate, più bella ancora di quando egli si recò a Parigi tanti anni prima ad adorare i suoi pittori. Gli era venuta la febbre di vedere tanta pittura, ancora più di prima, di lavorare ancora più forte. Ma già la malattia lo indeboliva ed egli si preoccupava di non riuscire a rendere ancora più fine la sua materia, più spirituale la sua visione. Cominciò a guardarsi più spesso il volto, a farsi vari autoritratti. Progettava quadri di composizione nel paesaggio e studiava Millet e Courbet, oltre ai suoi amatissimi Corot e Gézanne. Una brutta sera si mise a letto. Non aveva mai preso neppure un’influenza e, col suo sigaro e il suo gusto moderato del buon vino, aveva sempre smentito con la sua salute di ferro i cattivi profeti nemici di questi semplici complementi della vita. Ma non si alzò più; una operazione gli fu fatale. Morì il 10 aprile 1957. Spirando chiese di essere portato ancora almeno una volta in campagna. E’ sepolto a S. Gimignano in un punto dove, per caso, guarda un motivo che egli ha dipinto più volte, davanti ai Poggi del Comune delle cui primavere ed estati è bello che oggi godano in molti che ancora chiedono questa grazia alla pittura.
Raffele De Grada Jr.
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